Ecosistemi dell’innovazione ovvero il futuro dell’economia e la chiave per uscire dalla crisi

Le startup tecnologiche negli Stati Uniti sono ormai da anni uno dei motori principali della crescita economica. Il fenomeno è sbarcato anche in Italia, tuttavia l’opinione pubblica continua a guardarlo con scetticismo. Quanto accaduto alla startup palermitana Wib pochi giorni fa potrebbe però far cambiare idea a tanti.

I giovani imprenditori siciliani hanno sviluppato un innovativo sistema di distribuzione automatica e si sono presentati al mercato alla ricerca di fondi. In 48 ore sono riusciti a raccogliere finanziamenti per oltre mezzo milione di euro, un risultato eccezionale viste le attuali difficoltà di accesso al credito delle aziende. Il finanziamento non è stato erogato da un istituto bancario ma è il frutto di un lavoro di squadra che ha visto come protagonisti l’associazione no profit Italia Startup e la piattaforma di crowdfunding SiamoSoci. Questo risultato conferma quindi l’importanza, al fine dello sviluppo di nuove aziende, di un adeguato ecosistema dell’innovazione.

Ma cosa si intende esattamente con questo termine? Lo abbiamo chiesto ad un esperto in materia, il 29enne Matteo Sulis che ha appena lanciato online sardiniastartupmap.com, ovvero la mappa del sistema dell’innovazione della Sardegna.

Cosa è un ecosistema dell’innovazione? È possibile dare una definizione?
“Fino a poco tempo fa l’innovazione veniva generata secondo un approccio dall’alto ovvero dai laboratori di ricerca e sviluppo dei grandi gruppi industriali. Oggi invece parte dal basso. È fatta da piccoli gruppi di persone che concepiscono, sviluppano e testano nuovi prodotti e servizi. Per ecosistema si intende l’insieme degli attori che operando sinergicamente favoriscono questo nuovo modo di fare innovazione”.

Chi sono gli attori tipici di un ecosistema?
“Ovviamente le startup ma anche le università che formano la materia prima ovvero la conoscenza delle persone che lavorano nell’ecosistema, i finanziatori che forniscono i capitali, gli incubatori e gli acceleratori che aiutano le aziende nelle fasi iniziali della loro vita e le imprese di grande dimensione che non solo danno un contributo in termini di formazione professionale e quindi know how ma rilevano le startup di successo immettendo nuova liquidità nel sistema. Questo processo, per esempio, è molto comune negli Stati Uniti dove tutte le iniziative vincenti si aspettano di essere acquistate dai big del settore”.

Quali sono gli ecosistemi dell’innovazione più importanti a livello mondiale?
“Il caso noto a tutti è sicuramente quello della Silicon Valley che è iniziato negli anni ’40 con HP. Ma non è l’unico. Sempre negli Stati Uniti negli ultimi anni si è sviluppato tantissimo l’ecosistema di New York conosciuto come Silicon Alley. Fuori dall’America il caso di maggior successo è invece il distretto tecnologico israeliano che ha molte connessioni con quello americano”.

In Europa qual è lo stato dell’arte?
“C’è una grande fermento di attività. I centri più avanzati in questo momento sono quelli di Londra e Berlino”.

Veniamo all’Italia. È noto che siamo in ritardo ma nonostante questo esistono anche dai noi degli ecosistemi dell’innovazione? 
“Sì esistono. I due casi più rilevanti sono quelli di Milano e Roma, ma esistono anche degli ecosistemi regionali come appunto quello sardo che ho mappato”.

Quale è la lacuna più evidente degli ecosistemi italiani rispetto a quelli stranieri? 
“Tra le grandi imprese italiane manca ancora la visione che l’innovazione possa arrivare anche dal basso. Nel nostro paese, a differenza di quello che avviene negli Usa o negli altri principali paesi europei, le startup ancora non si comprano”.

Veniamo all’ecosistema sardo che hai mappato. Chi sono i protagonisti?
“La Sardegna ha importanti centri di ricerca, non solo quelli universitari di ingegneria e informatica ma anche il CRS4 che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del distretto sardo dell’ICT. Ci sono poi i capitali privati e pubblici. Per quanto riguarda questo secondo aspetto ogni anno vengono attivati i percorsi dell’innovazione di Sardegna Ricerche che prevedono fino a 100.000 di finanziamento per singola startup. Ci sono incubatori privati importanti come The Net Value, spazi di accelerazione e coworking come l’Open Campus di Tiscali , grandi aziende tecnologiche come Tiscali, Telit e Akhela e infine ci sono ovviamente gli attori più importanti che sono le startup”.

Quante sono quelle censite nella mappa? 
“Una quarantina ma il lavoro è ancora in progress”.

Quali sono i requisiti che hai considerato per qualificare una azienda come startup? 
“Ho preso in considerazione solamente le aziende tecnologiche ovvero quelle che forniscono un prodotto o un servizio relativo al settore ICT”.

In che modo le politiche pubbliche possono favorire la nascita di un ecosistema dell’innovazione? 
“Un ruolo importante lo hanno sicuramente le università. Per esempio quella di Cagliari ha recentemente lanciato il bando di partecipazione al Contamination Lab che consiste in un percorso pratico formativo in cui oltre 70 studenti di discipline diverse sono messi assieme in uno spazio di coworking per 6 mesi con l’obiettivo di produrre idee innovative. Gli studenti saranno assistiti da professionisti cui è stato affidato il compito di fare mentoring sulle pratiche di startup. Il percorso si concluderà con un pitch finale delle idee imprenditoriali ad investitori di settore”.

A livello più generale cosa si può dire invece? 
“Che è fondamentale avere una legislazione nazionale che favorisca la nascita delle startup. Il decreto 179 del 2012 varato dal ministro Passera è stato un primo passo importante in quanto ha provato a semplificare gli aspetti burocratici relativi alla creazione delle startup. Inoltre ha favorito anche un ruolo più attivo delle università nella creazione di innovazione per andare oltre il metodo tradizionale degli spinoff aziendali. Esperienze come i contamination lab sono il frutto della nuova normativa”.

Michael Pontrelli

innovazione, startup

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